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GEOGRAFIA - ITALIA - PIEMONTE

CENTRI MINORI

Valenza

(21.291 ab.). Centro commerciale e industriale in provincia di Alessandria, a 125 m s/m alla destra del Po, sulle estreme propaggini orientali del Monferrato. Cereali, uva. Allevamento. Industria dell'oreficeria e calzaturiera. Il primo nucleo di formazione della città ebbe origini ben più antiche e probabilmente ricollegabili allo stanziamento nella zona di tribù liguri attorno al X sec. a.C. Sottomessa dai Romani fin dal II sec. a.C., la città, grazie alla sua felice ubicazione lungo la Via Fulvis, divenne in breve fiorente. Verosimilmente verso il V sec. d.C., le popolazioni, che avevano formato la Valenza ligure e poi romana scesero, dalla zona compresa tra le colline di Astigliano e il confine con Monte, a costituire un nucleo urbano compatto nella zona dove attualmente sorge la città. è probabile che a rendere necessario l'abbandono delle primitive sedi sia stato il bisogno di garantirsi una maggiore sicurezza all'epoca della calata dei Barbari che, ciò nonostante, ripetutamente attaccarono e distrussero la città. Fu infatti sottomessa ad Odoacre e a Teodorico e, durante la guerra greco-gotica, fu messa a ferro e fuoco dal generale bizantino Belisario. Subì le incursioni del burgundo Gundebaldo e la lunga dominazione dei Longobardi. Sconfitti questi ultimi dai Franchi ed espugnata Pavia, passò sotto il dominio di Carlo Magno e dei Carolingi e rimase sotto il loro controllo fino alla creazione della Marca del Monferrato, da parte dell'imperatore Ottone I, in cui fu inclusa. Ma agli albori dell'epoca comunale essa era già tanto forte e munita da rifiutare l'asservimento ai Marchesi del Monferrato, assicurandosi l'indipendenza. La posizione favorevole della città, grazie anche all'attivo porto sul Po e alla florida agricoltura, aveva infatti permesso a Valenza di acquisire nella zona un ruolo di notevole importanza, soprattutto dal punto di vista commerciale. Tale posizione di prestigio venne compromessa nel XII sec., quando la Lega Lombarda fondò Alessandria, la quale, ben presto, dovette arrecarle danni di interesse e d'autorità. Nello scontro fra papato e Impero tuttavia si ispirò sempre ad una politica di parte guelfa e conservò la propria indipendenza fino alla seconda metà del XIV sec., quando attrasse i Visconti di Milano in piena espansione verso il Piemonte meridionale e perciò impegnati in una dura lotta contro i marchesi del Monferrato. Un progetto di consegnare proditoriamente Valenza a Galeazzo Visconti per il prezzo di 6.000 fiorini d'oro fu sventato nel 1358; i responsabili Lancia e Franceschino Bombelli e Peruccio Aribaldi furono infatti scoperti, condotti ad Asti e qui condannati alla decapitazione, mentre la città continuava a combattere contro le truppe viscontee che l'assediavano. Dovette tuttavia assoggettarsi ai Visconti (1370), come già Alessandria e gran parte del Piemonte meridionale. Valenza conobbe in quegli anni un periodo molto fiorente anche dal punto di vista economico essendo la città situata tra il territorio milanese e quello genovese e traendo perciò vantaggio dall'unione con Milano. Durante le lotte di predominio in Italia tra Francesi e Spagnoli della prima metà del secolo XVI, Valenza, legata alle sorti del ducato di Milano e in posizione strategica cruciale, visse un triste periodo, subendo diversi attacchi da parte dei Francesi che occuparono e perdettero ripetutamente il ducato a loro conteso dagli Sforza, dagli Spagnoli, dagli Svizzeri. Saccheggiata dalle truppe francesi del d'Aubigny (1499), da quelle di Francesco I di Francia (1515), riconquistata ai domini spagnoli (1521) da Carlo V per essere nuovamente ripresa dai Francesi (1523), la città passò in quell'anno, come feudo imperiale, sotto Carlo V. Arresasi di nuovo ai Francesi del Brissac nel 1557, fu definitivamente assegnata agli Spagnoli dal trattato di Chateau-Cambrésis del 1559 e visse un lungo periodo di pace sino al 1635. Fu in quegli anni che la città ebbe modo di incrementare la propria attività economica e intorno al XVII secolo si potevano contare a Valenza sei filande di seta ed un'industria di fustagni che occupavano centinaia di donne; rinomata era anche la fabbricazione di vasi atti a contenere il vino e molto attivo era il commercio attraverso i ponti di barche sul Po. Né d'altra parte perdeva le sua caratteristiche di città militare avamposto della Lombardia spagnola verso il Piemonte sabaudo, il Monferrato dei Gonzaga e i rinnovati interessi francesi, sicché era anche continuamente munita e rafforzata. Nel 1635 infatti, durante la ripresa delle guerre tra Francesi e Spagnoli e i loro alleati dell'Italia settentrionale, entro il più vasto quadro europeo della guerra dei Trent'anni, Valenza fu in grado di sostenere 60 giorni di assedio da parte degli eserciti collegati di Francia, del ducato di Parma e di quello dei Savoia. Resistette ancora all'assedio francese del 1641, ma dovette capitolare dopo 70 giorni nel 1656 alle truppe di Francia, di Savoia e di Modena, nell'ultimo periodo della lotta tra Francesi e Spagnoli, conclusasi con la Pace dei Pirenei (1659). Un nuovo assedio subì nel 1696, durante la guerra della Lega di Austria contro Luigi XIV re di Francia, ma Francesi e Sabaudi, guidati da Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, non riuscirono a piegarla. Rimase soggetta agli Spagnoli sino al 1707, quando fu conquistata da Vittorio Amedeo II di Savoia, durante la guerra di Successione spagnola, allorché i Francesi, questa volta alleati agli Spagnoli, battuti nella battaglia di Torino (1706), sgombrarono quasi tutto il Piemonte. Ai Savoia la città rimase grazie al Trattato di Utrecht del 1713. Vittorio Amedeo II, nel prenderne possesso, le riconfermò i titoli di cui era stata precedentemente insignita e la fece sede del governo della Lomellina. Valenza rimase sotto la dominazione dei Savoia fino al 1796, quando iniziò la conquista da parte della Francia prima repubblicana e poi napoleonica, di cui seguì, con il resto del Piemonte, le numerose vicissitudini sino al 1814. Malgrado le guerre continue e le pesanti contribuzioni, le istituzioni, le iniziative e le idee portate dai Francesi sviluppano anche a Valenza quei principi egualitari, quelle aspirazioni democratiche e di autogoverno che pongono le premesse dei Risorgimento. Dopo la caduta di Napoleone, infatti, la città subì non solo la Restaurazione sabauda, ma lo stanziamento di un presidio austriaco, che gravava sulle spalle dei contribuenti, e rivelò subito aspirazioni liberali e costituzionali. Nel marzo-aprile 1821, durante la rivoluzione piemontese, anche il Consiglio comunale solidarizza con gli insorti e con il reggente Carlo Alberto che aveva concesso la Costituzione. La sconfitta di Novara, il ritorno del presidio austriaco fino al 1823. La reazione sabauda con le sue dure condanne non piegano il sentimento della città, altrimenti non si spiegherebbe l'entusiasmo valenzano quando re Carlo Alberto, nel febbraio del 1848, promette la Costituzione, lo Statuto, e la solidarietà espressa così tempestivamente da una delegazione del Consiglio comunale al Governo provvisorio di Milano insorta. Per tutto il Risorgimento insomma la città dà il suo contributo ai moti costituzionali, alle guerre di indipendenza, alle imprese garibaldine. Con l'Unità d'Italia, Valenza perde definitivamente il suo carattere di città militare e, nel quadro del mercato nazionale unificato, sviluppa attività industriali nuove, che prima affiancano e poi offuscano quelle tradizionali e quelle agricole. Intorno al 1840, Vincenzo Morosetti iniziava l'industria orafa, che era destinata a diventare la più importante del nostro Paese, sviluppandosi non solo sul piano tecnico ed imprenditoriale, ma anche legandosi originalmente alle svolte della moda e dell'arte europee, senza perdere la grande forza della tradizione artigiana da cui era uscita. Intanto Valenza si ingrandisce, la ferrovia, il ponte in muratura la legano alla Lombardia e al resto del Paese, l'industria la spinge ad assorbire manodopera, migliorano rapidamente le condizioni economiche, la città si fa vivace, si stampano vari giornali, sorgono circoli culturali, sportivi, politici e i contrasti politici sono animati e duri. Lo sviluppo economico aveva infatti creato un notevole fermento sociale tra gli operai e gli artigiani e, nelle campagne, fra i contadini. Uomini come Luigi Pasoni, Valerio Folco, Alfredo Compiano, Giusto Calvi, Francesco Tassinari propugnavano idee prima radicali e poi socialiste e contribuivano a creare quella mentalità umanitaria e progressista che, da un lato, si legava alla tradizione giacobina e risorgimentale, dall'altro iniziava le fortune del socialismo nella città e nelle campagne. Nel 1905 Giusto Calvi è eletto deputato per il Partito Socialista proprio nel collegio di Valenza. Nel 1920 i deputati socialisti sono due, Francesco Tassinari, contadino e Paolo De Michelis, orafo, la città ha un'amministrazione socialista e le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra sono articolate e solide. Per questo lo scontro con il Fascismo, che ormai dilaga per tutto il Paese, a Valenza è particolarmente duro. Appoggiandosi ad un nucleo locale, le spedizioni punitive dei fascisti provenienti da Alessandria, da Casale, dalla Lomellina si abbatterono a lungo e con accanimento sulla città. L'episodio più drammatico di questi anni fu l'uccisione del fascista Vincenzo Alferano (giugno 1921), avvenuta mentre con un gruppo di squadristi si apprestavano ad aggredire giovani comunisti rinchiusi nella sezione del loro partito. Quest'uccisione è rimasta misteriosa e probabilmente scaturì da un equivoco fra i fascisti stessi, ma essa scateno immediatamente e a lungo la violenza. La sede del Partito Comunista e la Camera del Lavoro furono date alle fiamme, al Sindaco e agli amministratori comunali fu imposto di abbandonare le loro cariche, gli oppositori politici furono ripetutamente aggrediti e bastonati, un gruppo di cittadini, accusati del delitto, fu trascinato davanti ai tribunali, che non riuscirono tuttavia a dimostrarne la colpevolezza, malgrado ripetuti processi durati quasi vent'anni. Il Fascismo impose anche a Valenza il suo ordine autoritario, distruggendo ogni opposizione organizzata e colpendo non solo uomini, partiti e sindacati della sinistra, ma gli stessi popolari e cattolici, che contavano uomini notevoli per dignità morale e per iniziative civili e religiose. Alle guerre fasciste la città, come tutto il Paese, pagò un alto contributo di sofferenze e di sangue e la stessa industria valenzana pagò particolarmente cara la politica di deflazione mussoliniana, quando la moneta italiana fu rivalutata con una decisione più di prestigio politico che di calcolo economico (1927-1928) e decine di industrie furono messe in crisi per le nuove difficoltà di esportazione. è difficile seguire le vicende dell'antifascismo valenzano negli anni della dittatura, certo esso non ebbe caratteri di opposizione clandestina organizzata, ma gli anziani e i giovani trovarono il modo di incontrarsi, di discutere, di dissentire, di dare un senso ed una direzione alla loro protesta. Del gruppo più consistente di quegli antifascisti facevano parte uomini che si collegavano alle tradizioni della sinistra e uomini di estrazione cattolica e del partito popolare, vi erano insegnanti, ferrovieri, artigiani, operai, imprenditori. Pochi erano i mezzi per opporsi al Fascismo, anche solo sul piano propagandistico, ma questi uomini ebbero il merito di conservare e diffondere un bene incalcolabile, l'amore per la libertà e la giustizia, il diritto di pensare con la propria testa, di battersi per migliorare la società. Il Fascismo entrò in crisi anche a Valenza tra il 1942 e il 1943, quando fu chiaro che la guerra stava concludendosi tragicamente per gli errori e le colpe non solo di Mussolini, ma di un intero sistema. Dopo la caduta di Mussolini e del Fascismo (25 luglio 1943), gli stessi uomini che avevano fatte parte dei gruppi di opposizione cercarono di ricostruire i partiti, animarono discussioni e presero iniziative. Per questo la città non subì passivamente né l'occupazione nazista, né il ritorno dei fascisti della repubblica di Salò. Proprio l'8 settembre 1943, il giorno in cui i Tedeschi occuparono l'Italia, venne fondata a Valenza la sezione del Partito Comunista Italiano, subito dopo si formarono gli altri partiti, il Comitato di Liberazione Nazionale, che diresse la resistenza valenzana, e i primi gruppi armati, anche se la città non conobbe una vera e propria guerriglia urbana. Il movimento partigiano la strinse da vicino a partire dall'estate 1944, quando le brigate della Garibaldi, della divisione autonoma patria, della Matteotti giunsero sulle colline che circondavano la città. Valenza, tenuta da un presidio tedesco e da reparti della brigata nera e della guardia nazionale repubblicana, conobbe le atrocità nazifasciste. Dietro il cimitero furono condotti a morire i partigiani della Banda Lenti catturati presso Madonna dei Monti vicino a Grazzano Badoglio. L'eccidio aveva l'intento di ammonire i partigiani che avanzavano e la Resistenza nella città stessa. Ma non serviva: già nell'agosto del 1944 la brigata nera di Valenza veniva affrontata dai partigiani a Rivarone e nel febbraio del 1945 essa veniva colpita nella stessa città da un'azione fulminea: i fascisti sorpresi nel sonno, vengono disarmati e imprigionati e il loro comandante giustiziato. La città insorse fra il 24 e il 25 aprile 1945, mentre l'esercito tedesco subiva l'attacco degli anglo-americani e i partigiani conquistavano le città dell'Italia settentrionale. Fra Valenza e Alessandria si insaccarono le truppe fasciste e tedesche del IV corpo d'armata "Lombardia" al comando del generale Jahn, che tentavano la ritirata vero la Lombardia, o almeno di arrendersi agli anglo-americani. La lotta di liberazione ebbe ancora un tragico sussulto: tre partigiani valenzani lasceranno la vita sorpresi dai Tedeschi in fuga, proprio sulle soglie della pace e della libertà. Poco dopo capitolavano ad Alessandria il presidio tedesco e la divisione San Marco e a Valenza si concludevano le trattative fra i delegati del C.L.N. ed il generale Jahn, con la resa dell'intero corpo d'armata, poco prima che arrivassero gli anglo-americani (29 aprile 1945, ore 14). Come già accennato attorno al 1840, Vincenzo Morosetti iniziava l'industria orafa e quella grande e ineguagliabile tradizione artigiana. Un allievo del Morosetti, Vincenzo Melchiorre, si perfezionò a Torino e Parigi presso i migliori gioiellieri. Tornato a Valenza, iniziò una produzione orafa più qualificata, con l'uso di pietre preziose orientali. Gli allievi del Melchiorre si misero successivamente in proprio, dando inizio a quella proliferazione delle aziende che ancora oggi è in atto. Nel 1850 infatti vi erano 3 aziende orafe, nel 1913 44 aziende con 517 addetti, su una popolazione di 5.000 abitanti. Nel 1945 esse erano circa 300. In quest'anno fu fondata l'"Associazione Orafa Valenzana" che negli anni '60 fu fattore determinante del "boom" delle esportazioni con la creazione della "Mostra permanente" e dell'"Export Orafi".

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Varallo Pombia

(7.944 ab.). Centro commerciale e industriale in provincia di Vercelli, a 450 m s/m nella Valsesia, al centro di una conca dominata a Nord-est dal Sacro Monte. Industria laniera e meccanica. Artigianato del legno, ferro battuto merletti. La storia di Varallo Pombia è connessa a quella di Pombia, luogo importante politicamente sia nell'età romana che in quella medioevale. Il territorio viene compreso entro l'area designata convenzionalmente con la denominazione di "Civiltà di Golasecca", con cui si indicano gli insediamenti umani di estrazione celtica, di ceppo linguistico indoeuropeo, i Leponzi, stanziati fin dal secondo millennio a.C. in particolare nell'alta valle dei Ticino e nell'Ossola e in generale nell'area delimitata dalla Svizzera al Po e dal Sesia all'Adda. Sul finire dei V sec. a.C. nuove tribù celtiche, i Galli per i Romani, calarono in Italia e, nelle zone indicate si insediarono gli Insubri che poi si fusero con il golasecchiani. Con la romanizzazione, nell'età di Augusto, i territori novaresi con la valle d'Aosta e la Lombardia vennero inseriti nella undicesima provincia di Roma: la Transpadana. Pombia, già municipio romano verso il finire del IV sec., in età carolingia divenne uno dei comitati, che comprendeva pure Varallo Pombia, della Marca d'Ivrea. Nel 962 comparvero i primi conti di Pombia, poi di Biandrate (1040), con i quali il comitato pombiese acquistò grande rilevanza politica ed economica. Questi conti dalla seconda metà del X sec. e fino alla fine del XII sec., ebbero nella storia di Novara e di Milano somma importanza sia al tempo di Arduino, re d'italia, sia con Guido "il Grande" di Biandrate. Causa i duri contrasti fra i conti di Pombia poi di Biandrate e i vescovi novaresi, Corrado II detto "il Salico", re d'Italia donava nel 1025 alla Chiesa di Novara il comitato di Pombia che, come già detto, comprendeva anche il territorio di Varallo. La Chiesa novarese ebbe un'importanza notevole nel passaggio dall'età longobarda all'età comunale, apportando una radicale riorganizzazione dei poteri politici ed amministrativi ed in particolare di quelli religiosi, mediante la formazione delle "pievi": in una bolla di Papa Innocenzo II del 1033 viene citato anche Varallo quale sede di Pieve. Nel 1407 il duca di Milano Filippo Maria Visconti nominò Alberto signore di Borgo Ticino e di Varallo Pombia. Lo stesso duca con il diploma del 7 maggio 1413 concesse ai figli di Alberto, Ermes e Lancellotto, i feudi di Pombia e di Varallo Pombia con il titolo di signore. Da essi vennero poi devoluti e infeudati da Galeazzo Maria Sforza a Martino Paolo Nibbia il 6 ottobre 1469. Nel 1506 risulta che parte dei feudi di Varallo Pombia e di Pombia fossero in possesso dei fratelli Arcimboldi. Dette proprietà erano state acquistate dall'Arcivescovo di Milano Guido Antonio Arcimboldi dai figli di Martino Paolo Nibbia e, successivamente, alienate da Nicolao Arcimboldi il 12 gennaio 1507 a favore di Ludovico Visconti Borromeo. I fratelli Francesco Maria e Gianfranco Nibbia alienarono, previo regio assenso del 17 febbraio 1625, metà dei feudi a Camillo Caccia, vendita perfezionata il 31 luglio 1628. Pier Luigi Nibbia, con assenso del 17 febbraio, vendette il giorno 5 aprile 1685 l'altra metà dei feudi ad Ottaviano Caccia e al Cardinale Federico Caccia, Arcivescovo di Milano dal 1693 al 1699. è a questo personaggio che si deve con ogni probabilità la costruzione della primitiva casa Simonetta, poi ampliata e completata dai marchesi Ferreri, eredi di Federico Caccia. Nel 1776 morto il marchese Federico Ferreri, senza discendenti, le proprietà passarono ai Sormani, nobili milanesi e da questi, per acquisto, ai Simonetta. Fra il 1784 e il 1802, Gio Batta Simonetta acquistò dai Sormani e da altri Simonetta, praticamente, i feudi di Varallo Pombia e di Pombia. Per successione tali beni passarono ai figli Francesco e Luigi la cui figlia Giovanna, sposata Bollini, fu la madre di Bollini Teresa poi contessa Mocenigo Soranzo. Scomparsa la contessa Bollini Mocenigo Soranzo quanto ancora rimaneva dei feudi venne alienato dagli eredi. In Varallo Pombia, come nei centri limitrofi di Pombia, Divinano e Borgo Ticino, il Novecento vide la modificazione totale dei modi di vita delle popolazioni, che dovettero affrontare le situazioni politiche, economiche e culturali che condussero ai due conflitti mondiali: alla guerra del 1915-18 e a quella del 1940-45. Vi furono periodi di crisi per l'agricoltura collinare che portarono ad una forte emigrazione verso l'estero. Dopo il 1945 si ebbe una forte ripresa demografica in seguito all'immigrazione dal Veneto e dal Sud, che ha favorito una rapida trasformazione delle caratteristiche ambientali e culturali del paese, preservando comunque una fitta cortina di boschi, ideale collegamento tra l'area del Parco del Ticino e quella del Parco dei Lagoni di Mercurago. Nel 1972 l'Amministrazione Comunale acquistò dagli eredi della contessa Teresa Bollini Mocenigo Soranzo "Villa Soranzo", facendone la sede degli uffici comunali, della biblioteca e della pinacoteca.

La cittadina possiede numerosi monumenti interessanti, tra i quali ricordiamo: la collegiata di San Gaudenzio, appartenente al sec. XIII e rifatta nel 1710, al cui interno è conservato un polittico di G. Ferrari; la chiesa di Santa Maria delle Grazie, con affreschi di G. Ferrari (1513) e, poco distante dal centro abitato, la Cappella della Madonna di Loreto (sec. XV), affrescata da A. Zanetti, G. Ferrari e A. Solari. Per posizione geografica e per importanza, tra tutti domina il Sacro Monte.

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